venerdì 5 aprile 2019

Traudire la Patria

Se vi fate un giro cibernautico su una delle numerose pagine di stampo leghista/salviniano, e scorrete un po’ tra i commenti (vi consiglio di farlo pervia l’assunzione di un buon gastroprotettore preventivo), ne troverete ben presto almeno uno che in un italiano sgrammaticato accusa gli oppositori al presente Governo della Repubblica di essere “traditori della Patria”. La narrazione salviniana da questo punto di vista è stata decisamente efficace: non potendo presentare loro stessi come i “salvatori”, dopo 11 degli ultimi 20 anni passati al Governo insieme a Berlusconi, hanno bollato i propri avversari come i “nemici” da odiare, i Goldstein della situazione, coloro i quali desiderano solo il male per il popolo italiano. Per far ciò non hanno esitato a dare credito (o a non smentire, che in postverità significa la stessa cosa) a qualsiasi bufala, per quanto raffazzonata, per quanto complottista, per quanto al di fuori da ogni logica umana o divina, e a bollare chiunque fosse dotato di quel minimo di intelletto tale da riuscire a discernere il vero dal post-vero come un radical chic “globalista” alleato dei nemici della Repubblica. E il messaggio è arrivato forte e chiaro agli elettori della Lega: chiunque non sta con noi, è un traditore della Patria, e merita tutto l’odio che siete capaci di dare.
Questo liquame tossico asperso sulle spoglie del dibattito politico italiano è infame due volte. La prima, perché istituzionalizza il bullismo, come è stato clamorosamente evidenziato dai casi di Emma Marrone, di Laura Boldrini, perfino di un simbolo nazional-popolare come Claudio Baglioni. La seconda, perché rovescia la realtà dei fatti. Nella realtà, tradisce la Patria chi ha traudito la Patria, se mi passate il gioco di parole, cioè chi ha frainteso il concetto di patriottismo e lo confonde con il nazionalismo, senza accorgersi che tra i due concetti c’è la stessa differenza che passa tra un sospiro d’amore e un rutto alle cipolle. Se nel nazionalismo amare la Patria significa sentirsi superiori agli altri per meriti usurpati ai propri concittadini illustri (quasi mai nazionalisti anch’essi), nel patriottismo c’è un sentimento di abnegazione e sacrificio verso la propria terra totalmente assente nella narrazione salviniana. In altre parole, un patriota vuol rendere attivamente grande il proprio Paese, con il proprio sudore e le proprie lacrime; un nazionalista vuole che il proprio Paese sia grande per poter brillare di luce riflessa, ma non intende muovere un dito perché ciò avvenga. 

Lo sdoganamento dei nazionalisti da parte di Salvini è il più grande tradimento contro la Patria da parte di una forza politica al Governo che si vede dai tempi di Mussolini. Questo per più di un motivo. Innanzitutto, perché dà un riconoscimento istituzionale alla “feccia che ha risalito il pozzo” di montanelliana memoria, fino a ora costretta a brancolare nel pattume di Casa Pound, Forza Nuova et similia senza avere la più remota possibilità che i suoi deliri si potessero trasformare in progetto politico. Secondo, perché scredita totalmente i valori della cultura italiana, imprescindibile dai messaggi cristiani–che predicano concetti come l’accoglienza nei confronti di chiunque, dalla cultura latina–che sulla tolleranza delle diverse culture è riuscita a fondare un Impero, dalla filosofia illuminista occidentale–che ha reso il rispetto dei diritti umani uno dei suoi centri di gravità. Infine, perché annulla un concetto fondamentale, quello della responsabilità derivante dal privilegio; il “noblesse oblige” dei francesi, in altre parole. È fuor di dubbio che essere nato in un Paese del Primo Mondo, in una delle culle della civiltà occidentale sia un enorme, immeritato privilegio; ed è fuor di dubbio che il minimo che si possa fare è rispettarne la cultura e la Weltanschauung condivisa. Ricordando, se è possibile, che è molto difficile far rispettare la nostra identità culturale agli altri se noi stessi siamo i primi a gettarla alla ortiche.

venerdì 26 ottobre 2018

Condono con dolo



Il MoVimento 5 stelle è un fenomeno a un tempo ammirevole, surreale e terrorizzante. Terrorizzante per la totale incoerenza e ipocrisia dei messaggi che trasmette, seguendo passo passo la peggiore delle tradizioni italiane, ma ammantati di un’aura messianica che li rende dannatamente pericolosi; surreale per l’accettazione totale e passiva di tale ipocrisia da parte dei suoi seguaci, che ritengono i loro beniamini del tutto incapaci di sbagliare, mentre sono sospettosi, diffidenti e tendenti all’apotia per quanto riguarda gli esponenti di altre compagini politiche; ammirevole perché sono usciti a ottenere un risultato simile qui in Italia, dove di norma il dogma dell’infallibilità è riservato al Papa quando opera ex cathedra, e neanche sempre. 

La più grave delle tante piccole ipocrisie che hanno messo in atto (e che anche in questo caso sta passando sotto silenzio) è la faccenda dei condoni per Ischia e per il centro Italia inseriti aummo aummo nel famoso decreto Genova. La linea di difesa che i grillini esprimono è in effetti solida: dicono di non star proponendo nessun condono, perché è limitato territorialmente e dedicato esclusivamente a scopi legati alla ricostruzione. Ma proprio questa difesa, che sembrerebbe perfettamente sensata, fa capire quanto in realtà agiscano in cattiva fede e con dolo.

Nel decreto sono infatti scritte due cose: che nel centro Italia, i termini del condono del 2003 verranno estesi fino al 2016; e che a Ischia le domande di condono verranno recuperate e  valutate facendo riferimento esclusivamente alle norme contenute nella legge di condono di Craxi del 1985. 

Per spiegare cosa vuol dire, bisogna tener presente che in Italia, dal dopoguerra ad oggi, le leggi di condono edilizio sono state tre: una proposta durante il governo Craxi nel 1985, e due da Berlusconi, la prima nel 1994 e la seconda nel 2003. Ognuna di queste leggi (barbare, incivili e tutto quello che volete) ha almeno avuto la decenza di essere più qualitativamente restrittiva di quella precedente. Questo vuol dire che ottenere un condono nel 2003 è stato più difficile che ottenerlo nel ’94, e molto più difficile che ottenerlo nel ’85; ciò a causa di una sempre maggiore attenzione alla protezione idrogeologica, paesaggistica e ambientale. 

Se il decreto andasse in porto a questi termini, invece, chi ha fatto un abuso in una delle regioni del centro Italia colpite dal terremoto tra il 2003 e il 2016, se lo vedrà tranquillamente condonato alle condizioni del 2003, che oggi 26 ottobre 2018 ci sembrano terribilmente obsolete. 
Ma c’è di peggio. 
Chi ha fatto un abuso ad Ischia, e ancora non ha ricevuto il condono, vedrà la propria domanda essere ripresa in considerazione, a prescindere da quando avrebbe commesso l’abuso o da quando avrebbe inoltrato domanda di condono, alle condizioni del 1985.Vale a dire secondo i principi di protezione idrogeologica, paesaggistica e ambientale di 33 anni fa.

Tralasciando i legittimi dubbi relativi al fatto che gli abitanti di Ischia si trovino con condizioni enormemente più vantaggiose nonostante il terremoto abbia colpito meno duramente che in centro Italia, entrambe queste situazioni sono di una gravità inaudita. Case costruite ad Ischia con criteri considerati pericolosi già nel ’94 potrebbero essere condonate senza colpo ferire, perché magari erano invece considerate accettabili nell’85. Abusi commessi nel centro Italia dopo il 2003, nonostante già allora si disse “mai più condoni” verrebbero ipocritamente perdonati appena qualche anno dopo, e chiunque li abbia commessi guadagnerà bei soldoni approfittando di una tragedia terribile come il terremoto. 

Io vorrei che gli elettori 5stelle giudicassero i loro beniamini con la stessa severità con cui giudicano gli esponenti di altre forze politiche. Non con meno, non con più, con la stessa. Solo così possono fare la loro rivoluzione, solo così potranno definirsi apoti. 

lunedì 22 ottobre 2018

Governo del cambio manuale



Quante volte sui giornali, ai telegiornali, sui social, o con i soliti zanzeri al bar sentiamo dire la frase “ormai destra e sinistra non esistono più, è tutta la stessa marmaglia”? Spesso. E probabilmente, in un’accettazione pigra e qualunquista dell’opinione altrui, abbiamo annuito, senza soffermarci a riflettere su una frase che a causa della sua stessa banalità ci può sembrare innocua e tutto sommato insignificante. 
In realtà, questa frase è molto potente e racchiude un po’ il succo e la tragedia della politica italiana attuale, ma probabilmente non viene afferrata nelle sue sfaccettature più profonde neanche da coloro che la pronunciano.
Senza alcuna pretesa di esaustività né di rigore metodologico, e ponendosi il preciso obiettivo di semplificare al massimo, al limite della banalizzazione, possiamo immaginare destra e sinistra come due elementi entrambi essenziali in un sistema politico. Se la democrazia fosse un’automobile, la sinistra sarebbe interpretabile come l’acceleratore e la destra sarebbe il freno. In certi casi perversi la sinistra accelera al punto di diventare pericolosa, e in altri la destra è talmente frenante da trasformarsi in retromarcia; ma in una democrazia funzionante, entrambe le compagini politiche sono essenziali affinché il paese vada avanti, possibilmente senza andare a sbattere da nessuna parte. Questo principio, con le dovute eccezioni, è stato più o meno rispettato durante i primi 45 anni della storia della Repubblica. Ci sono stati ovviamente parecchi guasti, alcuni sbagli di direzione, qualche frenata un po’ brusca, parecchi incidenti, ma tutto sommato con la vecchia automobile si procedeva, finché non si è guastata irrimediabilmente all’inizio degli anni ’90. Quando l’abbiamo cambiata con una nuova di zecca, ne abbiamo scelta una con un freno del tutto imprevedibile, che ha corrotto il significato della parola freno (leggi: destra) e le ha dato un volto risibile; e un acceleratore che, dovendo fare in parte anche il compito del freno, è risultato privo di mordente. Il risultato? La macchina, con un acceleratore che doveva agire anche da freno e un freno che faceva un po’ come gli pareva, si è guastata dopo neanche la metà del tempo della prima. 
Ora abbiamo la nostra terza macchina. Per la prima volta, non abbiamo una macchina col cambio automatico. Siamo passati a una con il cambio manuale (chissà se è per questo che si chiama governo del cambiamento), e abbiamo un terzo pedale. Ma, decisamente, non siamo abituati a guidarla. Il freno ce lo siamo praticamente dimenticato (del resto, sono trent’anni che non lo usiamo, o lo usiamo a caso) e schiacciamo solo perennemente sulla frizione, incuranti del fumo nero che fuoriesce dal motore. E per di più, forse abbagliati dalla novità di questo terzo pedale, anche quando proviamo ad accelerare a tavoletta, quando lo facciamo premiamo contemporaneamente al massimo sulla frizione, ghignando soddisfatti mentre il rumore fa un inutile chiasso, senza andare da nessuna parte. 
Ecco quindi perché siamo confusi, ecco quindi perché “destra e sinistra non esistono più”. In realtà esisterebbero ancora, e sarebbero entrambe fondamentali; solo, non sappiamo più usarle. 




giovedì 9 agosto 2018

Il problema è se Euro.

Uno degli argomenti più scottanti del dibattito politico attuale è senza dubbio quello sulla permanenza o meno dell’Italia nell’euro, che vede contrapposto il fronte “sovranista” che vorrebbe un ritorno alla lira e quello “unionista” che desidererebbe continuare con la moneta unica.
Obiettivo di questo post è provare a confutare due delle più “popolari” tesi dei sovranisti. La prima è una delle più importanti, tanto che dà il nome stesso al filone di pensiero: secondo questa visione economica, infatti, l’Italia grazie alla lira ripristinerebbe la sua sovranità sulla moneta, perduta a vantaggio dei malvagi tedeschi; la seconda, una delle più abbaiate nei comizi, riguarda la paternità assolutamente tedesca della moneta unica e il fatto che sia stata la Germania lo Stato ad avere avuto più vantaggi. 
Per confutarle occorre avere ben chiara in mente quale fu la storia della moneta unica. Senza risalire a Carlo Magno e così via, il “nonno” dell’euro può essere considerato Jacques Rueff, consigliere economico del presidente francese Charles De Gaulle. Anche i più digiuni di storia hanno forse sentito parlare del leggendario sentimento antiamericano del famoso generale francese, sentimento che peraltro impedì per anni al Regno Unito (considerato da De Gaulle una succursale degli Stati Uniti) di accedere alla Comunità Economica Europea. De Gaulle mal tollerava l’assoluto predominio del dollaro derivante dal sistema di Bretton Woods, il sistema monetario internazionale che poneva il dollaro come valuta di riferimento a cui tutte le altre avrebbero ancorato il proprio tasso di cambio. Quella del vecchio generale non era solo una questione di principio: con il sistema di BW infatti, le politiche monetarie aggressivamente espansive degli Stati Uniti andavano a influenzare pesantemente le economie di tutte le altre nazioni del mondo. In altre parole, noi europei pagavamo parte della spesa pubblica (leggi: corsa agli armamenti) degli USA.
De Gaulle cercò duramente di combattere questo stato di cose. Il suo piano consisteva in due fasi. Nella prima, di breve periodo, la Francia avrebbe minacciato il suo diritto di scambiare le proprie riserve di dollari in oro, come il sistema di Bretton Woods prevedeva di poter fare. Questo fu sufficiente a far saltare il sistema e nel 1971, un anno dopo la morte di CdG, Nixon proclamò il passaggio a un regime basato su tassi di cambio variabili, “svincolando” le altre monete dal dollaro. La seconda fase, proposta appunto da Jacques Rueff, avrebbe dovuto impedire il ripresentarsi di una situazione così sfavorevole per le economie europee, e prevedeva la nascita di una moneta unica, in grado di combattere ad armi pari con il dollaro. Ma Rueff aveva fatto i conti senza l’oste: in questo caso l’oste era la Germania, o meglio, la Repubblica Federale Tedesca.
La Germania in quel momento stava vivendo una fase impressionante. Il miracolo economico tedesco –das Wirtschaftwunder, il più duraturo miracolo economico dell’Europa occidentale, aveva reso il marco tedesco la moneta più influente del continente. Le due economie in diretta competizione, la Francia e l’Italia, non riuscivano a restare al passo, ed erano costrette a svalutare le proprie monete per risultare minimamente competitive. È il periodo del franco debole e soprattutto della liretta, la quale nel 1980 assisterà a una svalutazione tale per cui l’inflazione toccherà la quota record del 20% in un solo anno. Ma c’è di più. Lo strapotere economico del marco si tradusse inevitabilmente in uno strapotere della Deutsche Bundesbank; ormai, quando Francoforte decideva di alzare i tassi di interesse, la Banque de France e la Banca d’Italia non potevano permettersi di non seguirla. In altre parole, Roma e Parigi potevano solo adattarsi a ciò che veniva deciso a Francoforte: subivano e basta senza nessun tipo di potere decisionale. 
Va da sé che questo stato di cose era estremamente conveniente per la Germania, che si confermava potenza egemone del continente senza aver dovuto sparare un solo colpo di fucile. Francia e Italia facevano enormi pressioni affinché finalmente venisse realizzato il sogno della moneta unica, ma senza l’appoggio della Germania semplicemente l’euro non si poteva fare. Sembrava una situazione senza uscita, finché arrivò un’opportunità che i tedeschi non si sarebbero fatti scappare neanche a costo di perdere il loro amato marco: la perestroika, e la conseguente possibilità di riunificazione tedesca. Mitterand e Andreotti si “lasciarono convincere” (non senza proteste: celebre la frase di Andreotti “amo talmente la Germania che ne preferisco due”) a non opporsi all’unificazione tra BRD e DDR; in cambio, nel previsto trattato di Maastricht si sarebbe finalmente iniziato a definire la moneta unica e soprattutto la nascita della banca centrale europea, una banca centrale INDIPENDENTE da TUTTI gli Stati membri. 
Definire l’euro come una moneta tedesca è quindi ridicolo. L’entrata in vigore dell’euro è stato il prezzo che i tedeschi hanno dovuto pagare per potersi riunificare. Allo stesso modo, dire che l’Italia avrebbe più sovranità sulla moneta se tornasse alla lira, è parimenti ridicolo. Nella storia della Repubblica, infatti, l’Italia non ha mai avuto sovranità sulla propria moneta: fino al ’71 era costretta seguire le iniziative della Federal Reserve, poi, dal ’71 al ’99, della BuBa. La sovranità era solo “de jure”, ma assolutamente non “de facto”. Grazie all’euro, invece, per la prima volta la sovranità della nostra moneta è affidata a un ente a cui noi italiani possiamo legittimamente partecipare e che possiamo influenzare. 
Concludo dicendo che ovviamente le cose non sono così semplici. La Germania ha giocato bene le sue carte e ha saputo ottenere enormi vantaggi da una situazione potenzialmente molto sfavorevole per loro. Ma di questo ne parlerò in un altro post.
Per approfondire: "Le linee rosse", di Federico Rampini
"Piccolo viaggio nell'anima tedesca" di Vanna Vannuccini e Francesca Predazzi

giovedì 2 agosto 2018

Mitigarmi gli immigrati.

Pur senza avere nessuna preparazione sull’argomento, non ci vuole un genio per capire che c’è qualcosa che non va in questo momento nel dibattito politico. La discussione è monopolizzata dall’immigrazione, ormai davvero non si parla d’altro. Sembra che ormai i problemi dell’Italia nascano, crescano e finiscano con l’immigrazione. Qualsiasi campo della cultura, della politica, della società, qualsiasi argomento, anche i più innocui e futili, dallo sport alla cucina, vengono in qualche modo ricondotti al Dittatore Supremo degli Argomenti. Ovviamente l’effetto è che il fenomeno viene ingigantito a livelli impressionanti, acquisendo tinte fosche e spaventose che non gli competono minimamente. Attenzione, non voglio assolutamente sminuire il dramma umano di questi poveri cristi, che nessun, e si badi ben, nessun italiano che non abbia passato un periodo della sua vita nel Terzo Mondo può anche lontanamente immaginare. Il mio obiettivo è solo quello di RIDIMENSIONARE il fenomeno, cercando di dare comparazioni con altri problemi italiani ben più gravi che però sembrano essere spariti dall’agenda politica. In particolare, mi concentrerò su due asserzioni piuttosto comuni, la prima delle quali ridicolmente falsa, la seconda vera (in parte) ma clamorosamente ingigantita: il fatto che esista un “problema di sicurezza” legato agli immigrati; e gli “enormi“ costi dell’immigrazione per le tasche dei cittadini italiani. 
Partiamo dal primo. La tesi, piuttosto frequente tra i circoli leghisti, è che da quando esiste un’immigrazione di massa i furti, gli stupri, gli omicidi sono drammaticamente aumentati. Lo dicono tutti, dall’Alvise tabaccaio di Perarolo di Cadore al Ministro degli Affari Interni della Repubblica Italiana. Ovviamente questa è una panzana talmente evidente che io davvero non capisco come faccia un individuo normodotato a crederci. Basta fare una breve ricerca su Google, per verificare quanto sia falsa questa affermazione. I reati in Italia, tutti i reati, sono diminuiti ogni anno dal 1991; cioè, sono ventisette anni che ogni anno che passa vede meno reati dell’anno precedente. L’unica eccezione è rappresentata dalle rapine in casa (ma non dei furti in generale), che recentemente sono ricominciate a crescere: ma questa è ovviamente colpa della crisi, non dell’immigrazione. Per capire meglio quanto sia enormemente svincolata l’immigrazione dal numero di reati, basta pensare che nel ’91 gli stranieri (extracomunitari e non, rifugiati e non) erano circa 625.000. Oggi, sono oltre cinque milioni. Se fosse vera la logica leghista, i reati oggi sarebbero più di otto volte superiori al 1991, mentre ad esempio gli omicidi sono calati da 1.916 nel 1991 a 343 nel 2017: sono quasi sei volte di meno. La nostra “percezione di insicurezza” deriva ESCLUSIVAMENTE dalle fake news e/o dalla estremizzazione di pochi isolati incidenti che acquisiscono una risonanza straordinaria e del tutto ingiustificata. Oppure, naturalmente, dal fatto che in fondo al cuore siamo un po’ razzisti, anche se non vogliamo ammetterlo.
Passiamo al secondo punto: il nostro beneamato ministro degli Interni sostiene che l’immigrazione costi circa 5 miliardi di euro all’anno. È vero. Ma è vero anche quello che dice Saviano, cioè che questi soldi sono svincolati dal bilancio, quindi non è necessario che siano coperti dalla tassazione ma possiamo considerarli come “debiti (che già avevamo) portati a nuovo”. In altre parole, è come se i nostri creditori ci “facessero il favore” di darci un po’ di margine sul recupero crediti, purché quel margine lo utilizziamo per contrastare “l’invasione”. Ma lasciamo questo punto da parte, che sarebbe comunque contestabile. Ammettiamo che Salvini abbia ragione, e che il problema immigrazione costi ai contribuenti italiani 5 miliardi di euro l’anno. La mafia costa circa 150 miliardi l’anno. L’evasione fiscale, circa 120 miliardi l’anno. La corruzione, circa 60 [dati 2010; ora le cose sono un po’ migliorate, ma non riesco a trovare i dati]. Il debito pubblico italiano, ad aprile, è arrivato a poco meno di 2312 miliardi di euro; se risparmiassimo i cinque miliardi di euro dell’immigrazione, riusciremmo ad annullarlo in 462 anni, se risparmiassimo i 120 dell’evasione lo annulleremmo in 19; e, beninteso, il debito pubblico ci costa 80 miliardi di euro l’anno.
Ci si aspetterebbe che un ministro degli Interni che abbia ben chiare quali sono le vere emergenze italiane, tenga 30 comizi contro la mafia ogni comizio contro l’immigrazione, essendo evidentemente un problema trenta volte più grosso. Ci si aspetta che gli evasori fiscali, che feriscono il nostro Paese ventiquattro volte più di quanto lo feriscano questi poveri ragazzi venuti da lontano stiano MUTI di fronte al problema, ben sapendo di non avere nessuna autorità morale per pronunciarsi.
E invece no.
Mi si accuserà probabilmente di essere un “buonista”. Forse lo sarò pure, va bene, non è un insulto. Ma trovo assurdo che un ministro delle Repubblica abbia un così scarso senso delle priorità. Sono le mafie che uccidono, non gli immigrati. Sono gli evasori che ci costano cari, non gli immigrati. C’è un problema che ci costa 150 miliardi, un altro che ce ne costa 5; dov’è la vera emergenza? O è da buonisti chiederlo? 
Fonti: Ministero dell’Interno
ISTAT
Wikipedia
CGIL
Il sole 24 ore

lunedì 30 luglio 2018

Slowgan




In epoca di Postverità, proteggere le parole, discuterle, commentarle, è più che un semplice piacere retorico per poeti o un esercizio esegetico per i giuristi, è niente meno che una forma di resistenza alla dittatura dello slogan. Gli apoti sono chiamati in questi tempi bui a soppesare le frasi ad effetto, analizzare i titoloni, ponderare i proclami con calma, lentezza e riflessività. Gli slogan politici hanno acquisito un potere che va al di là della loro tradizionale idea di punto di riferimento di uno scopo o di un’aspirazione; sono diventati ormai anche un modo per mascherare le proprie intenzioni, e di fingere di essere ciò che non si è. Questo post vuole commentare due dei più importanti e famosi slogan della Lega di Salvini e dimostrare come non solo siano deleteri (tutti gli slogan di qualsiasi schieramento politico in certa misura lo sono), ma anche drasticamente in contrasto con le ideologie di destra di cui Salvini dovrebbe essere il paladino.
Prima di continuare con la lettura, è d’uopo confessare che chi scrive ha una certa simpatia per alcuni princìpi tradizionalmente associati alla destra (il patriottismo non nazionalista, il rispetto totale per le istituzioni dello Stato, un certo apprezzamento per il liberismo economico); il post quindi difficilmente si manterrà asettico e neutrale. Ho ritenuto opportuno fare questa premessa per dare la giusta chiave di lettura. 

Il primo slogan che voglio commentare è “Prima gli Italiani”. Non c’è bisogno di spiegare perché questa frase trasmetta un messaggio completamente privo di etica, anche un bambino ci riuscirebbe. L’idea che una caratteristica congenita, legata alla propria nascita più che al proprio merito, renda portatori di diritti particolari va contro tutti gli ideali morali e giuridici che esistono sin dalla Rivoluzione Francese. Cosa c’è di diverso nel dire “Prima gli Italiani” col dire “Prima i nobili” o “Prima gli ariani” o “Prima quelli alti più di un metro e novantacinque”? Va da sé che qualsiasi posizione politica che difenda privilegi acquisiti per nascita e non per merito è semplicemente ridicola. Ma, di nuovo, non c’è (o non ci dovrebbe essere) bisogno di dire certe cose.
L’aspetto più interessante di questo slogan è invece un altro: che non si tratta affatto di uno slogan di destra. Non solo è ovviamente lontanissimo dalle ideologie della destra moderata e liberale, ma anche da quelle più estreme del fascismo italiano. Se leggiamo tra le righe la frase “Prima gli Italiani” il messaggio che possiamo intuire è “Sei italiano? Non importa se sei pigro, disonesto, delinquente, evasore, mafioso, ci sarà automaticamente qualcuno più in basso di te”. In altre parole, un modo per gli ultimi di sentirsi meno ultimi senza dover muovere un dito per migliorarsi o perfino per aiutare il proprio Paese. Questo concetto è quanto di più lontano dalla destra possa esistere. Perfino durante la barbarie del fascismo, essere italiano non significava affatto avere diritti speciali, quanto piuttosto avere doveri speciali. I nostalgici del fascismo, in particolare chi avverte la Fernweh per il Ventennio, sappiano che non fu affatto un’età dell’oro per i privilegi degli Italiani, che non potevano sottrarsi al dovere di morire per la Patria senza nemmeno avere il diritto di lamentarsi per tale ragione; cioè esattamente il contrario di quello che promulga Salvini, che offre a tutti il diritto di lamentarsi mantenendo intatta la possibilità di evitare i propri doveri.

Il secondo slogan è forse più subdolo, perché a una prima occhiata sembra innocuo e anzi, anche intelligente. Parlo di quel “Il Buonsenso al Potere” che campeggiava a caratteri cubitali sulla pagina Facebook di Salvini fino a qualche giorno fa. Per capire appieno perché questo slogan è pericoloso, consiglio a tutti la visione di questa puntata del programma “Eppur si muove”, condotto da Indro Montanelli e Beniamino Placido con ospite Elisabetta Rasy, in particolare dal minuto 3:20 al minuto 3:59. Ecco il link su Raiplay, il sito ufficiale della Rai (attenzione: è necessaria la registrazione; potrebbe servire l’istallazione di un plug-in; il link potrebbe essere difettoso, nel caso vi suggerisco di ricaricare la pagina un paio di volte e/o di aprirla con Google Chrome). 
Nonostante siano passati 24 anni da questa trasmissione, Montanelli e Placido hanno descritto con inquietante precisione il pericolo dell’esaltazione del buon senso a scapito della cultura. La frase “il buon senso ci dice che la terra è piatta e sta ferma, ma serve la cultura per capire che eppur si muove”, ascoltata oggi, mette i brividi. La postverità sta producendo una quantità enorme di individui dotati di tanto “buon senso” da credere che la terra sia piatta, ma talmente poca cultura da non capire di essere in errore. In altre parole, non sono in grado di fare ”quel passettino in più” di cui parlano i due giornalisti.
Tutto ciò è lontano anni luce dalla destra. La destra di Prezzolini, di Longanesi, di Montanelli, dovrebbe ribellarsi non una, ma dieci, cento, mille volte a questo imbarbarimento dei suoi messaggi. La borghesia italiana, che più di ogni altra classe sociale viene colpita a sangue dall’esaltazione dell’ignoranza portata avanti dagli slogan leghisti, preferisce invece andare a votare l’abito confondendolo con il monaco, o ancora peggio rifugiarsi timorosa nel limbo del non-voto. “Non ci sentiamo rappresentati da nessuno”, dicono. È vero. Ma se qualcuno si alzasse e invece che “Italia agli Italiani” e “Il buonsenso al potere” urlasse “Italia a chi la ama” e “La Cultura al potere”, avrebbero il coraggio di alzare la testa e votare per lui?

Io penso di no.

martedì 17 luglio 2018

Apertura.




È un esperimento per certi versi banale, per altri azzardato, questo blog che inauguro oggi. 
La banalità è nello strumento: un ennesimo diario di un ennesimo millennial che spera di sopperire con il disincanto alla mancanza di stimoli e struttura che caratterizza la sua generazione; l'azzardo lo si può trovare nel titolo. 

Cosa vuol dire "Àpotia in Postverità"? 
Nel 1922, anno della Marcia su Roma, il grande giornalista Giuseppe Prezzolini pubblicò una lettera incendiaria sulla rivista "Rivoluzione Liberale", in cui fondava la "Società degli Àpoti" cioè "coloro che, essendo dotati di intelligenza, non voglion bere le illusioni e le bugie che fanno vivere i patiti politici". L'apota, termine coniato dallo stesso Prezzolini, diventa quindi "colui che non se la beve", un paladino dello spirito critico che in un momento oscuro della storia italiana cerca di opporsi intellettualmente al dilagare delle menzogne e della propaganda del futuro regime fascista. L'apotia, per diretta conseguenza linguistica, è semplicemente la filosofia dell'apota, cioè quella di essere al servizio solo del dubbio e della critica e di non prender mai niente per oro colato, da nessuna fonte.

Non c'è bisogno di spiegare cosa significhi post-verità. L'Oxford English Dictionary ha eletto il termine post-truth come parola dell'anno 2016, e mai "riconoscimento" fu più adeguato. La post-verità dà il nome della nostra epoca, ed è uno dei principali cancri sociali del ventunesimo secolo. La maggiore consapevolezza della psicologia delle masse ha dato a politici, influencer e agenti di marketing un potere di manipolazione agghiacciante. Il problema principale legato al dilagare di questa piaga non è solo quello di influenzare la scelta delle persone tramite menzogne ripetute fino a renderle verità, è anche quello di aver aperto a una crisi morale senza precedenti. Non trovando più da nessuna parte il Vero, si ricerca solo il Proprio. 

L'apotia in post-verità non se la passa molto bene. Gli apoti, "quelli che non se la bevono" sono regrediti a uno stadio di completa incapacità di distinguere la realtà dal complotto, e coloro i quali si sarebbero dovuti porre al di fuori del gregge sono diventati invece una massa di pecoroni pronti a incensare qualsiasi teoria complottista e/o parascientifica, non importa quanto assurda possa sembrare. Ecco quindi che ciascuno pensa di essere l'unico depositario del Vero, e qualsiasi teoria, dato, o perfino fatto, che vada contro il Proprio Vero non viene affatto ascoltato o nel migliore dei casi  immediatamente bollato come menzogna. Qual è la reazione de "l'apota" davanti un fatto che smonti le sue convinzioni? «Io non me la bevo». Ecco quindi il nostro azzardo: cercheremo di essere un blog “controcontrocorrente”, nel quale si criticherà sia la corrente (siamo pur sempre apoti) che chi va contro la corrente (non ci piacciono i nostri colleghi apoti in post-verità). È un blog in altre parole che non piacerà a nessuno, ma forse proprio per questo potrà diventare interessante. 

Abbiamo uno scopo e un sogno. Lo scopo è quello di ridare lustro agli Apoti. Non si griderà "sveglia!!!", non si dirà "a me non la si fa", non si istigherà al forcone e alla rivolta, ma piuttosto si cercherà di analizzare la realtà con sufficiente spirito critico e si cercherà di offrire cornici diverse rispetto a quelle propostaci dai nostri politici per riuscire a inquadrare  problemi e bellezze dell'Italia e degli italiani dal maggior numero possibile di punti di vista. Il sogno è quello di uscire finalmente dalla tenebrosa palude della Postverità per tornare sul sentiero, magari utopistico ma certamente più nobile, di quello della ricerca della Verità. Capirete che il blog avrà raggiunto il suo scopo quando vedrete ogni suo post smontato nei commenti dei lettori con intelligenza, cortesia e rigorosità logica.
Capirete che avrà raggiunto il suo sogno quando aprendo il link non lo troverete più.