giovedì 9 agosto 2018

Il problema è se Euro.

Uno degli argomenti più scottanti del dibattito politico attuale è senza dubbio quello sulla permanenza o meno dell’Italia nell’euro, che vede contrapposto il fronte “sovranista” che vorrebbe un ritorno alla lira e quello “unionista” che desidererebbe continuare con la moneta unica.
Obiettivo di questo post è provare a confutare due delle più “popolari” tesi dei sovranisti. La prima è una delle più importanti, tanto che dà il nome stesso al filone di pensiero: secondo questa visione economica, infatti, l’Italia grazie alla lira ripristinerebbe la sua sovranità sulla moneta, perduta a vantaggio dei malvagi tedeschi; la seconda, una delle più abbaiate nei comizi, riguarda la paternità assolutamente tedesca della moneta unica e il fatto che sia stata la Germania lo Stato ad avere avuto più vantaggi. 
Per confutarle occorre avere ben chiara in mente quale fu la storia della moneta unica. Senza risalire a Carlo Magno e così via, il “nonno” dell’euro può essere considerato Jacques Rueff, consigliere economico del presidente francese Charles De Gaulle. Anche i più digiuni di storia hanno forse sentito parlare del leggendario sentimento antiamericano del famoso generale francese, sentimento che peraltro impedì per anni al Regno Unito (considerato da De Gaulle una succursale degli Stati Uniti) di accedere alla Comunità Economica Europea. De Gaulle mal tollerava l’assoluto predominio del dollaro derivante dal sistema di Bretton Woods, il sistema monetario internazionale che poneva il dollaro come valuta di riferimento a cui tutte le altre avrebbero ancorato il proprio tasso di cambio. Quella del vecchio generale non era solo una questione di principio: con il sistema di BW infatti, le politiche monetarie aggressivamente espansive degli Stati Uniti andavano a influenzare pesantemente le economie di tutte le altre nazioni del mondo. In altre parole, noi europei pagavamo parte della spesa pubblica (leggi: corsa agli armamenti) degli USA.
De Gaulle cercò duramente di combattere questo stato di cose. Il suo piano consisteva in due fasi. Nella prima, di breve periodo, la Francia avrebbe minacciato il suo diritto di scambiare le proprie riserve di dollari in oro, come il sistema di Bretton Woods prevedeva di poter fare. Questo fu sufficiente a far saltare il sistema e nel 1971, un anno dopo la morte di CdG, Nixon proclamò il passaggio a un regime basato su tassi di cambio variabili, “svincolando” le altre monete dal dollaro. La seconda fase, proposta appunto da Jacques Rueff, avrebbe dovuto impedire il ripresentarsi di una situazione così sfavorevole per le economie europee, e prevedeva la nascita di una moneta unica, in grado di combattere ad armi pari con il dollaro. Ma Rueff aveva fatto i conti senza l’oste: in questo caso l’oste era la Germania, o meglio, la Repubblica Federale Tedesca.
La Germania in quel momento stava vivendo una fase impressionante. Il miracolo economico tedesco –das Wirtschaftwunder, il più duraturo miracolo economico dell’Europa occidentale, aveva reso il marco tedesco la moneta più influente del continente. Le due economie in diretta competizione, la Francia e l’Italia, non riuscivano a restare al passo, ed erano costrette a svalutare le proprie monete per risultare minimamente competitive. È il periodo del franco debole e soprattutto della liretta, la quale nel 1980 assisterà a una svalutazione tale per cui l’inflazione toccherà la quota record del 20% in un solo anno. Ma c’è di più. Lo strapotere economico del marco si tradusse inevitabilmente in uno strapotere della Deutsche Bundesbank; ormai, quando Francoforte decideva di alzare i tassi di interesse, la Banque de France e la Banca d’Italia non potevano permettersi di non seguirla. In altre parole, Roma e Parigi potevano solo adattarsi a ciò che veniva deciso a Francoforte: subivano e basta senza nessun tipo di potere decisionale. 
Va da sé che questo stato di cose era estremamente conveniente per la Germania, che si confermava potenza egemone del continente senza aver dovuto sparare un solo colpo di fucile. Francia e Italia facevano enormi pressioni affinché finalmente venisse realizzato il sogno della moneta unica, ma senza l’appoggio della Germania semplicemente l’euro non si poteva fare. Sembrava una situazione senza uscita, finché arrivò un’opportunità che i tedeschi non si sarebbero fatti scappare neanche a costo di perdere il loro amato marco: la perestroika, e la conseguente possibilità di riunificazione tedesca. Mitterand e Andreotti si “lasciarono convincere” (non senza proteste: celebre la frase di Andreotti “amo talmente la Germania che ne preferisco due”) a non opporsi all’unificazione tra BRD e DDR; in cambio, nel previsto trattato di Maastricht si sarebbe finalmente iniziato a definire la moneta unica e soprattutto la nascita della banca centrale europea, una banca centrale INDIPENDENTE da TUTTI gli Stati membri. 
Definire l’euro come una moneta tedesca è quindi ridicolo. L’entrata in vigore dell’euro è stato il prezzo che i tedeschi hanno dovuto pagare per potersi riunificare. Allo stesso modo, dire che l’Italia avrebbe più sovranità sulla moneta se tornasse alla lira, è parimenti ridicolo. Nella storia della Repubblica, infatti, l’Italia non ha mai avuto sovranità sulla propria moneta: fino al ’71 era costretta seguire le iniziative della Federal Reserve, poi, dal ’71 al ’99, della BuBa. La sovranità era solo “de jure”, ma assolutamente non “de facto”. Grazie all’euro, invece, per la prima volta la sovranità della nostra moneta è affidata a un ente a cui noi italiani possiamo legittimamente partecipare e che possiamo influenzare. 
Concludo dicendo che ovviamente le cose non sono così semplici. La Germania ha giocato bene le sue carte e ha saputo ottenere enormi vantaggi da una situazione potenzialmente molto sfavorevole per loro. Ma di questo ne parlerò in un altro post.
Per approfondire: "Le linee rosse", di Federico Rampini
"Piccolo viaggio nell'anima tedesca" di Vanna Vannuccini e Francesca Predazzi

giovedì 2 agosto 2018

Mitigarmi gli immigrati.

Pur senza avere nessuna preparazione sull’argomento, non ci vuole un genio per capire che c’è qualcosa che non va in questo momento nel dibattito politico. La discussione è monopolizzata dall’immigrazione, ormai davvero non si parla d’altro. Sembra che ormai i problemi dell’Italia nascano, crescano e finiscano con l’immigrazione. Qualsiasi campo della cultura, della politica, della società, qualsiasi argomento, anche i più innocui e futili, dallo sport alla cucina, vengono in qualche modo ricondotti al Dittatore Supremo degli Argomenti. Ovviamente l’effetto è che il fenomeno viene ingigantito a livelli impressionanti, acquisendo tinte fosche e spaventose che non gli competono minimamente. Attenzione, non voglio assolutamente sminuire il dramma umano di questi poveri cristi, che nessun, e si badi ben, nessun italiano che non abbia passato un periodo della sua vita nel Terzo Mondo può anche lontanamente immaginare. Il mio obiettivo è solo quello di RIDIMENSIONARE il fenomeno, cercando di dare comparazioni con altri problemi italiani ben più gravi che però sembrano essere spariti dall’agenda politica. In particolare, mi concentrerò su due asserzioni piuttosto comuni, la prima delle quali ridicolmente falsa, la seconda vera (in parte) ma clamorosamente ingigantita: il fatto che esista un “problema di sicurezza” legato agli immigrati; e gli “enormi“ costi dell’immigrazione per le tasche dei cittadini italiani. 
Partiamo dal primo. La tesi, piuttosto frequente tra i circoli leghisti, è che da quando esiste un’immigrazione di massa i furti, gli stupri, gli omicidi sono drammaticamente aumentati. Lo dicono tutti, dall’Alvise tabaccaio di Perarolo di Cadore al Ministro degli Affari Interni della Repubblica Italiana. Ovviamente questa è una panzana talmente evidente che io davvero non capisco come faccia un individuo normodotato a crederci. Basta fare una breve ricerca su Google, per verificare quanto sia falsa questa affermazione. I reati in Italia, tutti i reati, sono diminuiti ogni anno dal 1991; cioè, sono ventisette anni che ogni anno che passa vede meno reati dell’anno precedente. L’unica eccezione è rappresentata dalle rapine in casa (ma non dei furti in generale), che recentemente sono ricominciate a crescere: ma questa è ovviamente colpa della crisi, non dell’immigrazione. Per capire meglio quanto sia enormemente svincolata l’immigrazione dal numero di reati, basta pensare che nel ’91 gli stranieri (extracomunitari e non, rifugiati e non) erano circa 625.000. Oggi, sono oltre cinque milioni. Se fosse vera la logica leghista, i reati oggi sarebbero più di otto volte superiori al 1991, mentre ad esempio gli omicidi sono calati da 1.916 nel 1991 a 343 nel 2017: sono quasi sei volte di meno. La nostra “percezione di insicurezza” deriva ESCLUSIVAMENTE dalle fake news e/o dalla estremizzazione di pochi isolati incidenti che acquisiscono una risonanza straordinaria e del tutto ingiustificata. Oppure, naturalmente, dal fatto che in fondo al cuore siamo un po’ razzisti, anche se non vogliamo ammetterlo.
Passiamo al secondo punto: il nostro beneamato ministro degli Interni sostiene che l’immigrazione costi circa 5 miliardi di euro all’anno. È vero. Ma è vero anche quello che dice Saviano, cioè che questi soldi sono svincolati dal bilancio, quindi non è necessario che siano coperti dalla tassazione ma possiamo considerarli come “debiti (che già avevamo) portati a nuovo”. In altre parole, è come se i nostri creditori ci “facessero il favore” di darci un po’ di margine sul recupero crediti, purché quel margine lo utilizziamo per contrastare “l’invasione”. Ma lasciamo questo punto da parte, che sarebbe comunque contestabile. Ammettiamo che Salvini abbia ragione, e che il problema immigrazione costi ai contribuenti italiani 5 miliardi di euro l’anno. La mafia costa circa 150 miliardi l’anno. L’evasione fiscale, circa 120 miliardi l’anno. La corruzione, circa 60 [dati 2010; ora le cose sono un po’ migliorate, ma non riesco a trovare i dati]. Il debito pubblico italiano, ad aprile, è arrivato a poco meno di 2312 miliardi di euro; se risparmiassimo i cinque miliardi di euro dell’immigrazione, riusciremmo ad annullarlo in 462 anni, se risparmiassimo i 120 dell’evasione lo annulleremmo in 19; e, beninteso, il debito pubblico ci costa 80 miliardi di euro l’anno.
Ci si aspetterebbe che un ministro degli Interni che abbia ben chiare quali sono le vere emergenze italiane, tenga 30 comizi contro la mafia ogni comizio contro l’immigrazione, essendo evidentemente un problema trenta volte più grosso. Ci si aspetta che gli evasori fiscali, che feriscono il nostro Paese ventiquattro volte più di quanto lo feriscano questi poveri ragazzi venuti da lontano stiano MUTI di fronte al problema, ben sapendo di non avere nessuna autorità morale per pronunciarsi.
E invece no.
Mi si accuserà probabilmente di essere un “buonista”. Forse lo sarò pure, va bene, non è un insulto. Ma trovo assurdo che un ministro delle Repubblica abbia un così scarso senso delle priorità. Sono le mafie che uccidono, non gli immigrati. Sono gli evasori che ci costano cari, non gli immigrati. C’è un problema che ci costa 150 miliardi, un altro che ce ne costa 5; dov’è la vera emergenza? O è da buonisti chiederlo? 
Fonti: Ministero dell’Interno
ISTAT
Wikipedia
CGIL
Il sole 24 ore